Aeroporti, è possibile definire “casa” un luogo?

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Aeroporti, partenze e arrivi. Quando puoi definire “casa” un luogo?

Aeroporti, tanti, forse troppi. Negli ultimi mesi si sono susseguite trasferte in Nord Europa, con gran parte della mia vita tra check-in e rientri a Barcellona. Per questo motivo sono stata meno presente del solito: di ispirazione ne ho avuta, di tempo un pó meno.
Ad ogni modo, inutile farvi perdere tempo sull’effetto calamita duty free o sulla discriminazione ingiusta di noi poveri fumatori una volta varcati i controlli. Inutile commentare le biondone in fila per l’imbarco a Colonia e il meraviglioso caos delle file verso Palermo.

La ricerca della presa per caricare il cellulare stile cane da caccia. Il mio sembra me lo faccia apposta: esco con 100% di batteria, arrivo in aeroporto e mi guarda con un 1%. Gli applausi all’arrivo: ebbene sì, non siamo gli unici “eleganti” del pianeta; giuro che da Amsterdam ho intravisto una specie “albino-occhi azzurri” avvicinare spavaldamente un palmo della mano all’altro.

Oggi, però, quando sono rientrata a Barcellona ho sentito qualcosa di speciale. Oltre alla leggerezza, una volta levato il piumino (e la sciarpa e il cappello e i guanti), ho subito il fascino di “casa”. Ed io, zingara a metà, questa cosa non la sentivo da tempo.

Ode quindi a Barcellona: con il suo catalano tanto lontano dai tempi 2.0, con le sue moto che sfrecciano a velocità nel traffico, con i sui colori attenuati dal sole. Che anche quando è grigia non è mai cupa. Con i suoi rumori e le sue lingue da tutto il mondo. Che anche quando è buia non è mai oscura. Che quando è notte non è mai “silenzio”. Con la vita che le passa attraverso, con gli arabi, il disordine, le ambulanze, i clacson, gli skaters, le terrazze, le bici. Questa è casa mia. È da un anno e mezzo che ci sono e non l’ho mai vista tanto bella come oggi.

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