Emancipazione femminile: tra maternità e Mona Lisa Smile

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Questa mattina il Comitato europeo dei diritti sociali (Ceds) del Consiglio d’Europa di Strasburgo ha reso noto un rapporto in cui ha esaminato le disparità sociali e di genere in 15 Paesi europei. Il report si è occupato di fare il punto sul livello di equità raggiunto nel mondo del lavoro e, più in generale, sull’emancipazione femminile nell’eurozona.

L’Italia risulta tra i paesi bocciati in quanto “ha violato i diritti delle donne perché ha fatto insufficienti progressi misurabili nel promuovere uguali opportunità e per quanto concerne una pari retribuzione”.

Neppure una settimana fa, tutti i più grandi quotidiani nazionali hanno riportato un altro dato significativo: nel 2019 sono state 37.000 le madri costrette a lasciare il posto di lavoro perché il loro ruolo in famiglia era inconciliabile con il loro mestiere. E secondo la stessa indagine dell’ispettorato nazionale del lavoro, se un genitore è costretto ad abbandonare il proprio impiego per meglio gestire la vita familiare, in 7 casi su 10 a farlo è la Mamma.

Quasi sempre mi occupo di musica, cinema e spettacolo e – forse per una sorta di deformazione professionale – spesso tendo ad associare accadimenti della realtà con parole che ho ascoltato nelle canzoni o film che ho visto. Anche perché, e lo ripeto spesso, il compito dell’arte è anche di farci riflettere sulla realtà che ci circonda e, magari, cercare di farci commettere qualche errore in meno.

Leggendo questi dati allarmanti, quindi, ho subito ripensato a un film che ho visto e rivisto: Mona Lisa Smile che proprio di emancipazione femminile tratta.

Perché nel 1953 (epoca in cui è ambientato il lungometraggio diretto da Mike Newell) era forse “giusto” e normale, per una donna, dover scegliere tra lavoro e famiglia. Ma nel 2020 non dovrebbero più esistere piatti della bilancia su cui pesare una decisione del genere.

La pellicola – ambientata nel dopoguerra degli Stati Uniti, nel pieno dell’integrazione razziale e della guerra fredda – intreccia le storie professoressa Katherine Watson, interpretata da Julia Roberts, a quelle di diverse studentesse di un collegio femminile alle prese con il tema dell’emancipazione femminile. Qui le giovani sono chiamate a confrontarsi, studiare, prepararsi ma ad un unico e principale scopo: quello di incontrare un “buon partito” e diventare perfette mogli e madri.

L’arrivo della Roberts/Watson sconvolge i piani: lei è un’insegnante divorziata, ribelle, femminista, single e in totale contrasto con le idee e i principi del collegio e si batte quotidianamente per l’emancipazione femminile perché per lei la donna è innanzitutto donna. Non madre. Non moglie. Semplicemente donna.

Davanti ai suoi occhi due studentesse agli antipodi: Betty Warren interpretata da una giovanissima Kirsten Dunst e Joan Brandwyn, a cui presta il volto Julia Stiles.

Alla prima è stato insegnato che la famiglia è una e indivisibile, che gli uomini restano fuori fino a tardi e le mogli li aspettano in silenzio tra le mura di casa difendendo dagli occhi indiscreti degli estranei quella perfetta immagine di “famiglia del mulino bianco”. Anche quando questa non esiste nella realtà.

La seconda sogna invece di sposare Tommy – il suo storico fidanzato – ma anche e soprattutto di frequentare la facoltà di legge di Harvard, dove è stata ammessa, e diventare avvocato. In lei la Watson vede una paladina quasi involontaria dell’emancipazione delle donne, una ragazza piena di talento, una giovane innamorata dell’amore e della vita e una speranza per quelle donne che vogliono far pesare la loro voce e cercano un loro posto nel mondo e nella società.

Il film prosegue tra battaglie femministe, rivendicazioni matriarcali e colpi di scena, fino ad arrivare a un epilogo inaspettato. Betty scopre che suo marito la tradisce, decide di divorziare e torna a studiare e scrivere, dividendo un appartamento con altre giovani studentesse single. Joan invece rinuncia alla carriera per amore, sposa Tommy e sceglie di dedicarsi alla sua casa, al suo matrimonio e ai figli che arriveranno.

Ognuna prende la sua decisione. In totale autonomia.

Il senso più profondo di questo film è proprio questo: l’autonomia e la libertà con cui entrambe le giovani protagoniste prendono la propria decisione, sconvolgendo le certezze della loro insegnate e di un Paese ancora impreparato al progresso e all’emancipazione femminile. Esercitano quella libertà di scelta che spesso nel 1953 non era concessa all’universo femminile e che, dati alla mano, in alcuni casi fatica ad arrivare anche oggi.

La parità, quella più vera, passa indissolubilmente per la libertà. A un uomo non verrà mai chiesto di scegliere se essere padre o manager, non gli verrà chiesto durante un colloquio di lavoro se vede figli nel suo futuro e a nessuno verrà mai in mente di considerarlo meno uomo perché ha scelto di non essere padre nel corso della sua vita. Tutti giudizi che, invece, le donne sono costrette a subire.

Se c’è una cosa che Mona Lisa Smile mi ha insegnato è che il concetto di realizzazione e di soddisfazione è molto personale. Non esiste un modo “corretto” per appagare a propria femminilità e l’emancipazione femminile.

Una donna non è donna solo se madre e non è indipendente solo se sceglie di lavorare invece di dedicarsi alla sua famiglia. La vera emancipazione femminile sta nella libertà di poter compiere una scelta sul proprio futuro in autonomia e serenità, senza cedere alle pressioni di nessuno: fidanzati, mariti, datori di lavoro o amici. E neppure di una società che impone scelte drastiche: bianco o nero, moglie o manager, mamma o imprenditrice.

Ben vengano le mamme, ben vengano le donne che scelgono di non essere madri per dedicarsi alla carriera o per qualsiasi altro motivo e ben vengano quelle donne che riescono a coniugare e far coesistere lavoro e maternità. Ma soprattutto ben venga una realtà che glielo permette, senza condizionarle nella gestione della propria esistenza.

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