In tempi di inflazione galoppante e stipendi che non corrono allo stesso modo, il consumatore medio si è fatto più accorto.
I carrelli si riempiono meno, le wishlist si allungano e per quella borsa firmata che prima si comprava “perché sì”, oggi si batte cassa sui circuiti del second-hand, si setacciano mercatini vintage oppure si trovano alternative, per esempio scoprendo artigiani indipendenti, spesso più autentici di certi colossi del lusso.
In un’epoca segnata da un’inflazione che erode il potere d’acquisto e da una ritrovata saggezza nel valutare ogni spesa però assistiamo a fenomeni apparentemente contraddittori nel nostro rapporto con il lusso. Da un lato, la riscoperta del vintage e dell’artigianato locale, un plausibile segnale di attenzione al portafoglio e, auspicabilmente, di una maggiore consapevolezza etica. Dall’altro, un’inaspettata fioritura di mercati paralleli, reali o virtuali, dove la protagonista indiscussa è la contraffazione griffata.
E qui sorge spontanea una domanda: come si concilia questa presunta oculatezza con la dilagante offerta di falsi (dupe) sui social media?
C’è, infatti, un fenomeno curioso: mentre da un lato cresce la sensibilità verso la sostenibilità, dall’altro pullulano account TikTok e Instagram che vendono repliche – chiamiamole pure falsi, chiamiamoli pure dupe – dei grandi marchi. Perché?
Forse perché, anche quando ci raccontiamo di voler essere più etici e consapevoli, resta intatto il culto del logo che ci seduce, anche quando sappiamo benissimo che è tutto fumo (e molto poco vera pelle!). Così, si moltiplicano i contenuti in cui venditori cinesi – alcuni dei quali, pare, legati alle stesse fabbriche che producono per i brand rinomati – mostrano borse identiche alle originali, ma senza logo. “Stesso materiale, stessa fabbrica, prezzo più basso”. Il messaggio è chiaro. E anche piuttosto disarmante tanto che arriviamo a chiederci “ma chi produce realmente il lusso?”. (Se pensiamo che i dazi non c’entrano nulla ci sbagliamo, la Cina vuole farci capire quanto dipendiamo da lei).
Il paradosso è servito: ci indigniamo per lo sfruttamento della manodopera nei Paesi in via di sviluppo, ma chiudiamo un occhio se la nostra “Kelly” a 120€ ha un pedigree sospetto. In fondo, se l’originale e la copia nascono nello stesso stabilimento, cosa distingue davvero l’una dall’altra?
Scorrendo reels e tiktoks, pullulano profili che, con una disinvoltura quasi spudorata, propongono repliche “perfette” di borse iconiche e calzature di tendenza. Un’offerta che evidentemente incontra una domanda, alimentata da un’ossessione per il marchio che fatica a scemare, persino in tempi di ristrettezze economiche.
Se le stesse fabbriche cinesi che producono per le grandi maison realizzano articoli privi di logo, venduti poi a prezzi decisamente più accessibili, dove risiede il vero valore aggiunto?
La risposta sembra risiedere in quel sigillo, in quel nome altisonante che trasforma un oggetto, altrimenti anonimo, in uno status symbol, un lasciapassare sociale.
DHGate (venditore wholesale) – nuova mecca dei fashion dupe – ci pone davanti a una domanda scomoda: il “Made in” è ancora un valore o solo una bella etichetta da pagare a peso d’oro?
In un mondo dove l’apparenza vince sulla sostanza, forse il problema non è il falso, ma la nostra ostinazione a volere l’illusione del lusso a tutti i costi. Anche quando sappiamo – o facciamo finta di non sapere – che il prezzo più alto non sempre compra la qualità.
DHGate incarna perfettamente questa ambiguità. Una piattaforma che mette in discussione il sacro Graal del “Made in”, insinuando un dubbio legittimo: se la filiera produttiva del lusso è sempre più globalizzata, cosa distingue concettualmente un “dupe ben fatto” da un originale, al di là del prezzo e, ovviamente, del logo?
Forse la verità è che, nonostante le difficoltà economiche e i proclami di un consumo più responsabile, il nostro legame emotivo con il brand, come costruttore di identità e dispensatore di prestigio, è ancora troppo forte. Siamo disposti a chiudere un occhio sulla dubbia provenienza, sulla palese falsità, pur di ostentare un frammento di quel sogno patinato. Un’ironia amara, che ci dipinge come consumatori schizofrenici, attenti al centesimo ma pronti a cadere nell’illusione di un lusso low-cost, pur sapendolo un inganno.
Forse, in fondo, la vera tendenza del momento è l’arte di illudersi a basso costo.
