Lo scorso 15 settembre è stata inaugurata a Milano la prima statua dedicata a una donna fra tutte quelle presenti in città. Ha fatto molto scalpore l’idea che su 121 statue visibili e visitabili nel capoluogo meneghino non ce ne fosse neppure una – immagini sacre a parte – dedicata a un’esponente del gentil sesso. E, forse, ha fatto ancora più scalpore l’idea che nessuno, o quasi, ci aveva mai fatto davvero caso.
Inutile dire che nel momento in cui finalmente si parla spesso e a dovere di gender equality e in quello che Kate Winslet sul palco degli Emmy ha definito il decennio delle donne, una statua che raffiguri un’immagine femminile in una delle città principali d’Europa è molto più che una semplice opera d’arte.
È il segno che – forse troppo lentamente – il cambiamento a cui si auspica da tempo sta finalmente arrivando. Alcuni onori e privilegi, tra cui l’esposizione di statue celebrative, sebbene di femminismo si parli da decenni, sembravano infatti essere tacitamente riservati agli uomini.
Di nobili origini, già in giovane età Cristina Trivulzio di Belgioioso – la protagonista della statua milanese – dimostrò di essere una rivoluzionaria. Rifiutò il matrimonio combinato con un suo cugino di secondo grado e gli preferì Emilio di Belgioioso, nonostante egli stesse dilapidando il suo patrimonio. E, dopo la fine del suo matrimonio, a 30 anni, la “scandalosa” nobildonna, partorì una figlia, Maria, senza mai rivelare chi fosse suo padre.
Se già soltanto le scelte che riguardano il privato della donna fanno di lei un’avanguardista, le decisioni che riguardano la sua vita pubblica ne danno conferma. Fu una patriota, ebbe addirittura contatti con la carboneria e per questo per anni fu costretta a vivere tra Pargi e l’Italia. Non frequentò scuole per il volere della sua famiglia ma studiò in casa con degli istitutori e la sua formazione fu continua, anche in età adulta: per questo divenne una giornalista e scrittrice e fondò, a sue spese, una rivista che supportava la monarchia italica: Ausonio.
Ma soprattutto nella sua città natale – Locate – istituì scuole non solo maschili ma anche femminili e incentivò l’istruzione per i figli dei contadini. Al centro delle azioni di Cristina Trivulzo Belgioioso ci furono quindi in particolare le donne e i bambini e questo fa di lei non solo un simbolo del risorgimento, ma anche un di attualità. Per questo vedere la sua immagine per le vie di Milano non può che essere un bene.
La gioia di aver avuto finalmente una statua che riconoscesse il giusto e dovuto tributo a una donna, che tanto ha fatto per la storia dell’Italia, è però durata poco. A qualche km di distanza da Milano – e precisamente in quel di Sapri – un monumento analogo che doveva essere dedicato a un’altra esponente femminile, protagonista di un episodio storico e letterario, ha infatti destato scalpore per i motivi sbagliati.
Si tratta della tristemente celebre (per la poesia che la riguarda e a oggi anche per la statua che la raffigura) spigolatrice di Sapri, realizzata da Emanuele Stifano.
Nello scolpire la sua visione della spigolatrice di Sapri, l’artista ha infatti enfatizzato in maniera particolare ed evidente una parte del corpo della donna: il fondoschiena, avvolto da una veste che, mossa dall’astratta brezza marina del lungomare di Sapri dove è stata posizionata, ne sottolinea – decisamente troppo – le forme. La statua è stata giudicata inopportuna e sessista, anche perché gli abiti che la contadina indossa non ricordano per nulla l’abbigliamento delle lavoratrici dei campi del 1857.
Stifano si è difeso spiegando di non aver voluto una vera e propria rievocazione storica, ma di aver scelto di rappresentare la spigolatrice come bella e armoniosa per sottolinearne la fierezza e il risveglio della sua coscienza.
La spigolatrice di Sapri è un personaggio nato dalla fantasia letteraria di Luigi Mercantini che, nella poesia a lei dedicata, non ne descrive i particolari fisici. È lecito quindi che ognuno la immagini come preferisce e l’artista in questione la voleva avvenente. Fin qui nessun problema.
Ma sul punto è necessario porsi qualche domanda: c’era davvero bisogno di ridurre questa immagine evocativa e rivoluzionaria a un fondoschiena? Qual è il senso di realizzare una contadina, protagonista di un episodio storico, “vestendola” con abiti che unicamente ne accentuano un particolare fisico? La fierezza e il risveglio della sua coscienza passano dalle curve delle sue natiche? Dov’è il legame con l’episodio storico e con quello letterario?
Ma cosa ancora più importante: se fosse stato un uomo a lei contemporaneo a dover essere scolpito, magari Carlo Pisacane o Giuseppe Mazzini, l’artista lo avrebbe voluto con un pantacollant aderente che ne risaltava lo stesso particolare fisico? C’è da aspettarsi di no.
Non si tratta di moralismo. Perché di statue che raffigurano nudi maschili e femminili ne è pieno il mondo sin dell’antica Grecia, e non è uno scandalo vedere un fondoschiena. Di recente anche Luciano Garbati, stimatissimo scultore argentino, ha realizzato la sua particolare visione di Medusa – in cui il MeToo corregge il mito – che si trova esposta di fronte al tribunale di New York e quelle nudità non hanno destato scandalo e scalpore perché funzionali al ruolo e al significato del personaggio rappresentato. Così come nell’antichità spesso ai nudi era affidato proprio il compito di celebrare la bellezza dei corpi e la loro armonia, anche attraverso le immagini delle divinità che rappresentavano la perfezione.
Questa circostanza della spigolatrice di Sapri invece è molto diversa, perché quello che avrebbe dovuto essere un monumento dedicato al ricordo di un episodio di storia, per altro molto triste, è diventato l’ennesimo pretesto – consapevole o inconsapevole – per ridurre un’immagine femminile al semplice apprezzamento fisico.
A confrontare le due statue dedicate alle donne apparse a poco tempo di distanza l’una dall’altra, a Milano e a Sapri, la differenza che salta all’occhio è evidente: la prima è un vero tributo a una figura importantissima della storia e della tradizione italiana. La seconda risulta essere un mero esercizio di capacità stilistiche che non considera il messaggio e il contenuto e, anzi, riduce la figura femminile a un bel contenitore.
Di sessismo non si pecca solo consapevolmente, ma se si offende la sensibilità di qualcuno ci si scusa. E né il sindaco di Sapri né l’artista finora l’hanno fatto.
Fonte immagine di copertina con la statua della Spigolatrice di Sapri qui