Joker è il personaggio che rispecchia la nostra società?

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Se c’è una cosa che internet mi ha insegnato in questi anni è che ogni social, ogni piattaforma, ogni app scaricata sul nostro telefonino, ci connette virtualmente ad amici vicini e lontani ma soprattutto ha uno scopo diverso e un pubblico differente.

Quando ho il cellulare davanti passo la maggior parte del tempo curiosando tra i post su Facebook o sbirciando le foto su Instagram che è il social del presente e del futuro prossimo. Ma esiste nella mia quotidianità anche un network più “serio” che utilizzo per informarmi e sapere tutto ciò che c’è da sapere solo attraverso un click.

Twitter, grazie al suo algoritmo, non solo permette di conoscere le tendenze e gli argomenti caldi provenienti da tutto il mondo, ma offre anche la possibilità di sapere quali sono i temi su cui le persone con cui noi abitualmente interagiamo, intervengono più di frequente. Quindi ci informa su tutti quegli argomenti che potrebbero potenzialmente far parte della nostra sfera di interessi.

Su Twitter leggo di politica, di musica, di innovazione, di cinema, di sud Italia e mi appassiono alle notizie belle e fuori dal comune che di tanto in tanto – e fortunatamente non troppo di rado – scorrono sulla mia timeline.

Nelle ultime settimane due hashtag hanno fatto da padroni nella mia bacheca: #Joker e #IntelligenzaArtificiale. C’è poco da stupirsi. La scienza fa passi avanti ogni giorno tra report e nuove scoperte e il film di Todd Philiphs ha stuzzicato le penne e le tastiere di chiunque lo abbia visto scatenando una moltitudine di commenti di spettatori pronti a tesserne le lodi. Due argomenti lontani e apparentemente disconnessi, ma che accostati mi hanno inevitabilmente fatto pensare a Joaquin Phoenix.

Iniziamo col dire che si, qualche settimana fa, anche io ho visto il film che ha trionfato come best movie alla 76esima mostra internazionale del cinema di Venezia. Ero un po’ scettica, lo ammetto. So che Joker è stato un personaggio complesso, spesso frutto di rielaborazioni in differenti pellicole, so che è forse l’unico “cattivo” a essere riuscito – nel tempo – a ritagliarsi un ruolo autonomo e indipendente dalla sua mimesi e so che nel 2009 l’interpretazione del pagliaccio folle ne Il cavaliere Oscuro è valso l’Oscar postumo a Heath Ledger.

Ma non pensavo che un film incentrato su un personaggio dei fumetti della DC potesse essere considerato un’opera d’autore. E lo dice una che non perde un’uscita della Marvel al cinema e ha pianto a dirotto alla morte di Iron Man, ma ha sempre pensato che i film sui supereroi fossero utili passatempi per trascorrere una serata con gli amici e nulla più. Pur volendo rimanere lontana dalla polemica innescata da Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, posso dire di averli sempre considerati film belli e senza impegno.

Con il senno di poi non posso invece non ammettere che il lungometraggio diretto da Philipsh è sicuramente un piccolo capolavoro dell’industria cinematografica. Ma ad essere totalmente sincera ho iniziato ad apprezzarlo davvero solo a qualche giorno di distanza dalla visione.

È proprio l’interpretazione di Joaquin Phoenix così realistica, impeccabile e totalizzante che cattura e rimanda le riflessioni sul film nel suo insieme a un secondo momento. Chi esce dalla sala resta interdetto e, diciamolo, un po’ angosciato. L’unico stato d’animo possibile appena fuori dal cinema è quello di un profondo senso di dispiacere nei confronti del protagonista e di una sola domanda in mente: quanto dolore ha dovuto sopportare quest’uomo?

Sarà per la realistica ricostruzione di Gotham che assomiglia sempre più a una New York dei giorni nostri che a un luogo di fantasia (il film è stato girato nel Bronx), sarà perché il biopic tenta di “giustificare” il male e ricondurlo a una causa ben precisa che vede l’odio e la cattiveria scaturire solo da altro odio e cattiveria, ma mi è capitato spesso in queste settimane – proprio tra le pagine di Twitter – di leggere commenti del tipo “In fin dei conti siamo tutti più simili a Joker che a Batman”.

Nulla di nuovo sotto il sole: quando un film raggiunge un successo inaspettato – come Joker quindi – non è strano che la gente inizi a rivedere se stesso nel protagonista e a cercarne il lato positivo. Anche se si tratta di qualcuno che si veste da pagliaccio e spara all’impazzata senza provare rimorso.

La verità è che non somigliamo tutti a Joker, ma che il nostro mondo inizia ad essere sempre più simile alla Gotham descritta nel film: piena di ingiustizie, sommosse popolari, povertà dilagante e con uno stato di amarezza diffusa che attanaglia i comuni cittadini.

Arthur/Joker è un solitario, un disadattato, un soggetto che ha sicuramente dei gravi problemi personali ma soprattutto che è portato dagli eventi della vita a sentirsi lontano da tutta la gente che gli sta intorno.

Un po’ come accade al personaggio che Jaquin Phoenix interpreta in Her, un film a cui Joker mi ha fatto ripensare e che riconduce senza troppe difficoltà al secondo argomento che prepotente invade le nostre bacheche da settimane: l’intelligenza artificiale.

Il protagonista di Her, Theodore Twomby, è uno scrittore solo e introverso che sta per divorziare e si chiude nelle sue insicurezze. Si allontana da amici e parenti e instaura un rapporto d’amore con un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale. Anche lui è un emarginato 2.0 e, tracciando le dovute differenze con Arthur/Joker in cui la condizione di solitudine è portata all’esasperazione, si possono trovare dei punti in comune tra i due personaggi.

Lo sviluppo della tecnologia e delle potenziali capacità del sistema analizzato nel film del 2013 diretto da Spike Jonze è esaltato ai massimi livelli di finzione scenica: si tratta di un dispositivo in grado di evolvere, auto-progettare le modifiche che lo riguardano, capace di apprendere e di avere uno sviluppo psicologico ed emotivo.

Oggi si parla di sostituire alcuni impiegati comunali con dei dispositivi virtuali e di utilizzare le nuove tecnologie negli ambiti più disparati e impensabili della nostra quotidianità, ma non si immagina nè si reputa possibile raggiungere questi livelli. Nella nostra epoca non si è arrivati al punto di instaurare una relazione amorosa con un sistema operativo, ma di certo abbiamo una costante necessità di stare vicino al nostro cellulare che è diventato, nei rapporti di coppia, di amicizia e di lavoro, un veicolo fondamentale e spesso uno scudo dietro cui rifugiarci.

Inviamo messaggi, scriviamo mail, scattiamo foto, editiamo post e viviamo la quotidiana verità con sempre meno frequenza. Sarei ipocrita a non dire che faccio parte di quella che può essere definita la generazione dei nativi digitali e che i frutti di innovazione e progresso sono il mio pane quotidiano. Ma è altrettanto vero che a volte mi fermo a pensare a quanto l’indiscriminato utilizzo tecnologico ci stia rendendo persone sempre più fredde e umanamente più povere. Nei rapporti interpersonali e nei nostri mestieri.

È retorico e melenso ripetere che parlarsi in videochat non è come guardarsi negli occhi e iniziare una conoscenza tra scambi di messaggini su whatsapp e like su Instagram non è minimamente paragonabile a una fase di corteggiamento fatta di prime cene impacciate e timidi sorrisi. Ma, sarò all’antica, ritengo che anche sostituire un impiegato in carne e ossa con un dispositivo elettronico potrà forse farci guadagnare del tempo e raggiungere risultati migliori (davvero?) eppure non riuscirà mai ad eguagliare l’insostituibile ruolo del componente umano, dell’empatia e del calore di un’altra persona. Necessari ora come non mai soprattutto sui luoghi di lavoro.

Siamo davvero sicuri di voler allontanare in nome del progresso, dello sviluppo e del profitto altre possibilità di confronto dalla nostra vita quotidiana? Siamo seriamente pronti a vivere le nostre esistenze seguendo una linea retta di indifferenza e disimpegno nei confronti del prossimo al solo scopo di realizzare nel minor tempo possibile un interesse personale? Imboccare questa strada forse non ci farà finire come Joker (e me lo auguro) ma rischierebbe di farci assomigliare sempre di più all’insicuro e solitario Theodor Twombly. E se avete visto Her sapete che non sempre la via che sembra più facile, porta al lieto fine.

Post a cura di Maria Francesca Amodeo

Credit foto di copertina a questo link

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